"Polenta, sempre polenta",
così esclamano gli anziani di molti paesi, a ricordo dei tempi in cui il
tradizionale piatto confezionato col mais, veniva consumato con poche varianti
a colazione, pranzo e cena. L'immagine emblematica evocata da Beppe Fenoglio
nella sua (e nostra) passata "Malora", della fetta di polenta
strofinata sull'acciuga e appesa a un cordino al centro della tavola, diventò
l'icona del mondo povero contadino. La sua produzione rappresentò per tante
comunità un importante mezzo di sopravvivenza.
I testimoni però concordano
tutti su una cosa: quella di una volta era diversa da oggi.
Quella dura, fatta con farina grossolana contenente ancora un po' di
cruschello, si metteva nel latte a pezzi o a fette. Da polenta e latte
emanavano i profumi agresti di vaccino, di formentone e di lisciva proveniente
dal sacchetto di candida tela in cui era conservata la farina gialla dentro al
farinajo o cassamadia, insieme ai sacchetti dei ceci e delle lenticchie.
I piatti più
elaborati la volevano "concia" (sistemata in un tegame con formaggio,
burro, funghi e passata in forno), oppure "acomoda" (unita bollente a
burro, toma, cannella e noce moscata). Diffuso in tutto il pinerolese era il
consumo della polenta con il vin cheuit, ossia un
"vino" di mele. Posto in un recipiente, lo si faceva bollire per
almeno 10-12 ore a fuoco lento. Bollendo, il succo tendeva a solidificare e, a
cottura avvenuta, si gonfiava e diventava molto denso. In occasione
dell'uccisione del maiale, era consuetudine accompagnare i budin (sanguinacci)
e la Fricasà (frattaglie
fritte) con polenta.
In Piemonte, grazie al
"Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale dello Stato
Sabaudo" (Casalis, 1838) è possibile risalire a tutti i comuni delle tre
grandi aree in cui si concentrava il massimo della produzione: il Canavese, la
bassa Val di Susa e la pianura compresa fra Torino e Pinerolo.
L'abbandono delle montagne e il declino del mondo rurale sono un altro fattore
che ha portato alla diffusione della monocoltura di poche varietà, destinate
quasi in via esclusiva all'alimentazione animale, per il consumo di carni e la
produzione di latte.
Per fortuna però,
rispondendo ad una rinata attenzione per il cibo buono e locale, grazie a
singoli contadini, mugnai, associazioni, gruppi d'acquisto, piccoli comuni, la
selezione-produzione-riproduzione di alcuni di questi mais è stata ripresa. In
provincia di Torino se ne contano a tutt'oggi sette, ben distinguibili: il Pignoletto giallo e rosso del Canavese, l'Ostenga bianco del Canavese, il
Nostrano dell'Isola, l'Ottofile bianco, giallo e rosso dell'Albese. Le sette varietà, iscritte al
Registro Nazionale delle Varietà da Conservazione della Regione Piemonte, sono
molto diverse l'una dall'altra, ognuna adatta ad un uso specifico.
Autore: Loredana
Matonti
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Ingredienti per 4 persone:
500 gr di farina di mais bramata
2 lt di acqua
1 cucchiaio di sale
80 gr di burro
1 etto di Fontina
1 etto di Toma del Maccagno
1 etto di Parmigiano Reggiano grattugiato
Procedimento
Ponete sul fuoco una pentola con l'acqua e il sale e
quando sta per prendere il bollore gettate a pioggia la farina di mais
rimestando sempre nello stesso verso per non fare grumi.
Cuocete per circa 30 minuti poi aggiungere il burro,
la Fontina e la Toma a pezzi e il Parmigiano Reggiano.
Continuate la cottura, sempre rimestando, ancora per
una decina di minuti fino a quando tutti i formaggi saranno sciolti.
Versate la polenta su di un tagliere e servite.
Servitela con i contorni che preferite, carne, pesce,
formaggi ecc.