domenica 30 aprile 2017

Liquore Bicerin di giandujotto

Il Bicerin di gianduiotto è un liquore senza glutine cremoso a base di crema gianduia che appartiene alla tradizione torinese, tanto da essere considerato prodotto Agroalimentare Tradizionale (PAT) della Regione Piemonte, da non confondere con il Bicerin   (pronunciato [bitʃeˈriŋ] in piemontese, letteralmente bicchierino) che è una storica bevanda calda e analcolica tipica di Torino fin dal 1700, evoluzione della settecentesca “bavareisa”gustosa bevanda servita in grandi bicchieri tondeggianti, composta da una mescolanza di caffè, cioccolato e crema di latte dolcificata con sciroppo.
Il rituale del bicerin prevedeva che i tre ingredienti fossero serviti separatamente. Inizialmente erano previste tre varianti: pur e fiòr (l'odierno cappuccino), pur e barba (caffè e cioccolato), un pòch ëd tut (ovvero un po' di tutto), con tutti e tre gli ingredienti miscelati. È stata quest'ultima formula ad avere più successo e a prevalere sulle altre. Una curiosità che è rara da leggere è che il tutto veniva accompagnato da dei "bagnati", dolcezze artigianali di ben 14 specie.
Al tempo la ricetta si basava su due prodotti, il caffè e il cacao, entrambi molto costosi da importare. Fu così che nel corso della seconda metà dell’800 si preferì eliminare tra gli ingredienti il caffè e tagliare il cacao con un frutto molto diffuso in Piemonte, le nocciole.
Questa rivisitazione del Bicerin ottenne subito l’apprezzamento da parte dell’aristocrazia torinese e presto acquistò grande fama. Non mancarono tra gli estimatori personaggi illustri che ne aumentarono la fama, come Alexandre Dumas e Camillo Benso di Cavour.
Nacque così il Bicerin di Giandujotto, ovvero si iniziò ad avviare la produzione di liquore artigianale a base di crema di gianduia, un vero cioccolatino sciolto nell’alcool. Da allora la ricetta è rimasta immutata e, dal 1930, è stata registrata da Nuove Distillerie Vincenzi, che ancora oggi ne detiene il marchio originale.
Ovviamente questa non è la ricetta delle Nuove Distillerie Vicenzi, ma una ricetta casalinga tramandata di generazione in generazione.



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Ingredienti

600 gr. gianduiotti (cioccolatino tipico piemontese a base di nocciole e cioccolato)
600 ml. di latte
400 ml. di panna
240 ml di alcool da liquori a 90°
2 tazzine di caffè

Procedimento
Scaldate il latte senza farlo bollire e scioglietevi i gianduiotti, aggiungete il caffè, la panna e mescolate bene ancora per qualche minuto, avendo cura di non far bollire.

venerdì 28 aprile 2017

Dal grappolo al vino

Vino deriva dalla parola sanscrita “vena” formata dalla radice ven (amare), la stessa della parola Venus, Venere. Il vino è dunque, da sempre, legato all’amore, alla convivialità, alla gioia di vivere, alla cristianità, parte integrante del rito della Messa.  Esso rilassa il corpo e la mente, ci inebria e ci predispone allo scambio con l’altro.
L’origine del vino si perde nella notte dei tempi ed è un po’ la storia dell’umanità, c’è chi, addirittura,  fa risalire l’origine della vite sino ad Adamo ed Eva, ipotizzando che il frutto proibito del Paradiso terrestre non fosse la mela ma l’uva: la Bibbia, nella Genesi, ci racconta che Noè salvò la vite dal diluvio universale portandola al sicuro sulla sua arca e che, terminato il diluvio, la piantò ottenendo una vigna e si ubriacò del suo vino.
Il Piemonte è terra di nobili vini su cui sono stati scritti trattati ed enciclopedie: ad essi sono stati dedicati musei, itinerari, scuole di alta specializzazione e quant’altro.
Quando si pensa ai pregiati vini piemontesi  non si può fare a meno di pensare alle colline su cui crescono  vigneti stupendi, con i tipici caldi colori autunnali, non solo belli da vedere per le loro armoniose geometrie, ma oggi ancor più importanti per un’economia agricola sempre più radicata ed efficace.
Ogni grappolo racconta il miracolo delle stagioni, del sole, della pioggia, di un lavoro che ha mille sfumature da percepire. Questa è la fantastica magia di un popolo di lavoratori che ha fatto di quel vino un miracolo, un miracolo che vede nella vendemmia la sua sublimazione quando il grappolo abbandona la vigna e va a riposare nel legno. Nel riposo si determinerà la grande annata che arriva da una terra speciale dove un gruppo di agricoltori, lavorando  insieme, hanno dato dignità al vino. Questa piccola storia, quasi una favola, ha fatto si che molti agricoltori del passato non abbandonassero il loro podere, quella grande idea, quell’attaccamento al territorio, ha garantito il decoro, ha dato lustro e grandezza al lavoro di questi campi e di queste colline. Oggi quelle uve, quel vino sono diventati un simbolo dell’Italianità nel mondo e quella cantina un punto di riferimento culturale per un piccolo mondo antico che conserva gelosamente il passato e dona alla modernità un emblema.


A inizio ottobre, quando gli acini sono gonfi e dolci, inizia un rito molto importante, che ha un fascino arcaico e magico: la vendemmia.
Inizia così la trasformazione dell’uva che diventerà quel nettare che tutti conosciamo con il nome di vino.

mercoledì 26 aprile 2017

Polpette di spinaci – Polpëtte dë spinass

Anche questa ricetta “povera” fa parte della tradizione contadina e non solo. Verosimilmente, considerato che per decenni l’olio d’oliva era ad appannaggio delle classi più ricche, queste polpettine erano fritte con l’olio di noci poi soppiantato dal burro.
Spesso venivano servite su di un letto di purea  di spinaci a cui si aggiungeva un po’ di farina bianca e del latte.



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Ingredienti per 4 persone
1 kg di spinaci
200 gr  di Parmigiano Reggiano grattugiato
100 gr di pangrattato
2 uova
Qualche rametto di prezzemolo
Sale e pepe q.b.
Olio extravergine d’oliva q.b.


Procedimento
Pulite accuratamente gli spinaci lavandoli più volte e sbollentateli per qualche minuto con la sola acqua del lavaggio.
Scolateli strizzateli, tritateli e metteteli in una ciotola.
Unite il Parmigiano, il pangrattato, il prezzemolo tritato, sale, pepe e le uova leggermente sbattute. Impastate bene e formate delle polpettine.
Friggetele in abbondante olio , scolatele e mettetele su della carta da cucina per eliminare l’unto in eccesso e servite subito.
Buon appetito!


sabato 22 aprile 2017

Rane in padella – Ran-e ‘n pèila

Le rane un tempo erano un piatto povero, tipico del novarese e del vercellese zone di risaie e quindi ricche di canali d’irrigazione, habitat ideale per la loro riproduzione. Oggi sono diventate un piatto raro e raffinato che possiamo trovare solo in alcuni ristoranti del vercellese.
In Piemonte le rane si preparano anche impanate con la pastella, oppure ripiene di salame, uova e spinaci, come a Novara, o ancora in umido con i funghi freschi come nel vercellese.




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Ingredienti per 6 persone:
20 rane
5 spicchi d’aglio
Rosmarino  e timo q.b.
Peperoncino (facoltativo)
Olio extravergine d’oliva  per friggere q.b.

Procedimento

Pulite circa 20 rane, tagliate gli spicchi d’aglio in 4 parti ciascuno e steccate con ogni pezzo una rana.
Infarinatele e fatele friggere in olio caldo con qualche rametto di rosmarino, timo e se vi piace anche un po' di peperoncino.
Scolatele e mettetele ad eliminare l’olio in eccesso su di un pezzo di carta da cucina. Salate.

Buon appetito!

venerdì 21 aprile 2017

Acciughe al verde - Anciove al verd

Ci fu un tempo, ormai ignoto ai più e da molti dimenticato, in cui gli abitanti delle valli alpine, nella brutta stagione, erano costretti ad abbandonare la loro casa per andare a cercare una fonte di guadagno altrove. Era un’emigrazione che sovente non puntava ad aumentare le ricchezze della famiglia, ma semplicemente a non gravare sul consumo delle magre risorse disponibili. Si partiva ancora bambini e ognuno s’ingegnava a trovare un lavoro, magari un mestiere peculiare; alcuni si affidavano alla forza fisica, altri all’ingegno e all’intraprendenza.
Gli acciugai (anchoiers in occitano, anciuè in piemontese, anciuat in lombardo) della Valle Maira …, a fine estate, terminati i lavori nei campi, scendevano al piano per vendere acciughe e pesce conservato. La merce da vendere la compravano in Liguria: non lavoravano il pesce, lo vendevano soltanto, girovagando in tutto il Piemonte, in Lombardia e persino in Veneto ed Emilia...
Sull’origine del fenomeno sono molte le ipotesi, destinate peraltro a rimanere tali. Le diverse notizie sul commercio delle acciughe e del pesce conservato sotto sale già in tempi remoti non danno risposta del come e del perché si partisse proprio dalla Valle Maira. Ci si deve accontentare di supposizioni, alcune apparentemente più realistiche e probabili, altre forse più fantasiose, ma ugualmente possibili. I più ritengono che tutto abbia avuto origine dal commercio del sale, sul quale gravavano alti dazi: qualche furbacchione pensò di riempire in parte una botte di sale ponendovi sopra, per occultarlo agli occhi dei gabellieri, uno strato di acciughe salate. Allo scoprire poi che la vendita di quelle acciughe procurava ugualmente un buon guadagno, si dedicò al nuovo commercio meno rischioso...
Da quel che si sa dai racconti dei vecchi, di solito partiva prima un capofamiglia, uno già esperto, che andava nei porti della Liguria a comprare la merce per poi portarla o spedirla in qualche città della pianura padana. Gli altri della famiglia, parenti o amici fidati, lo raggiungevano in quello che diveniva il loro campo base, punto di smistamento. Portavano con loro i caratteristici carretti, i caruss, leggeri ma resistenti, costruiti tutti in valle, a Tetti di Dronero, per lo più colorati d’azzurro.
Durante i mesi invernali, in attesa di tornare al lavoro dei campi, giravano di quartiere in quartiere, di paese in paese, di cascina in cascina, per strade inghiaiate o innevate, nelle piatte campagne o nelle valli alpine, sempre tirando o spingendo il loro caruss carico di pesce salato, alla ricerca di qualche acquirente. Anche trenta e più chilometri al giorno; e non sempre a sera si poteva tornare al magazzino con gli altri, si dormiva dove si trovava, magari offrendo in cambio qualche acciuga. Anche per i pasti ci si aggiustava, al risparmio, sovente buttando giù qualche acciuga sbattuta contro le aste del carretto per far cadere il sale. Un po’ per la sete dovuta a tutto quel sale e un po’ perché i migliori clienti erano gli osti, il vino inevitabilmente abbondava, creando spesso non pochi problemi. Molti cominciavano da ragazzi, già verso i dodici anni: si cercava così di non essere di peso per la famiglia, ma non sempre per tutti il guadagno finiva col coprire le spese.
Per alcuni fu l’inizio di una fortuna: più intraprendenti, scaltri o fortunati, ebbero modo di dar vita a dei veri imperi economici con numerosi dipendenti e aziende tutte loro di lavorazione del pesce, addirittura in Spagna.
Nel secondo dopoguerra, la maggior parte abbandonò definitivamente il paese d’origine, e scese in pianura per dedicarsi esclusivamente al commercio. Non più il carretto, ma mezzi a motore, via via più comodi e attrezzati. Ancora oggi è possibile trovare qualche acciugaio originario della Valle Maira tra i banchi del mercato, ma sono sempre meno. Era ed è un lavoro duro, così pochi figli hanno continuato il mestiere dei padri: grazie al benessere economico raggiunto hanno preferito dedicarsi a impieghi che prevedono la cravatta. Molti di quelli che non hanno abbandonato la via percorsa da generazioni sono ora titolari di supermercati o luccicanti negozi...
Un umile pesce, una valle alpina, tanti uomini tenaci: una storia che non deve essere dimenticata.

tratto dal libro "L'Acciuga nel Piatto"
Diego Crestani - Roberto Beltramo
casa editrice I Libri della Bussola





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Ingredienti:

3 etti di acciughe sotto sale
2 etti di prezzemolo
1 spicchio d’aglio
Mezzo bicchiere di olio extravergine d’oliva
40 gr di pane raffermo
Aceto di vino bianco q.b.

Procedimento
Dissalate le acciughe sotto l’acqua corrente,  apritele delicatamente in due e togliete la lisca. In un piatto fondo mettete dell’aceto bianco e immergete le acciughe per qualche secondo. Scolatele e asciugatele bene con carta da cucina.

martedì 18 aprile 2017

Trote in carpione – Trute an carpion

La nostra bella regione è ricca di fiumi,di laghi e di torrenti dove le trote sono rintanate dietro i sassi, in attesa della preda; dove l’acqua fa la schiumetta lì si ossigena ed aspetta il nutrimento, oppure, se sono in caccia, si trovano ovunque.
Parlando di laghi, la trota, a seconda della stagione, ama stazionare dove l’acqua è più fresca, d’inverno più verso la superficie e d’estate più sul fondo. Quelle utilizzate per questa ricetta arrivavano dalla Valchiusella. E’ una tipica preparazione piemontese detta “carpione” che prende il nome  da un pesce d’acqua dolce, la carpa, ma che è utilizzata, non solo per altri tipi di pesce, ma anche per verdure e uova.  




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Ingredienti per 4 persone:
2 trote
2 spicchi d’aglio
1 cipolla rossa di Voghera
2 carote piccole
5/6 foglie di salvia
1 bicchiere d’aceto bianco
1 bicchiere di vino bianco
1 bicchiere d’acqua
Mais per impanatura q.b.
Olio extravergine d’oliva q.b.
Sale q.b.
Pepe in grani q.b.

Procedimento

Pulite le trote e tagliatele a filetti, o fatevi preparare 4 filetti di trota dal pescivendolo, poi impanateli nel mais.
Friggeteli, in abbondante olio caldo, scolateli su carta assorbente per eliminare l’olio in eccesso e salateli.
Pulite la cipolla, lavatela e tagliatela a rondelle, lavate e raschiate le carote, tagliatele a bastoncini.
Versate, in una casseruola, l’acqua, l’aceto, il vino e aggiungete la cipolla, l’aglio schiacciato, i bastoncini di carota, la salvia, il pepe e un po’ di sale.


Fate sobbollire a fuoco dolce per 5/6 minuti, lasciate intiepidire. Mettete due filetti di trota affiancati in un contenitore e versate sopra metà della marinata con metà delle verdure, adagiate gli altri due filetti e completate con la rimante marinata.
Coprite e lasciate riposare in frigo per 24 ore.
Al momento di servire, scolate i filetti e deponeteli su di un letto d’insalatina mista e mettete sopra i filetti le verdure della marinata, ben scolate.
Buon appetito!





La ricetta originale prevede l’impanatura con la farina bianca, ma la farina di mais assorbe meglio olio e i filetti rimangono più croccanti.

domenica 16 aprile 2017

Torta di nocciole - Torta 'd ninsòle

La nocciola è il frutto del nocciolo, pianta coltivata dall'uomo già nell'antichità. Dopo le mandorle sono il frutto più ricco di vitamina E,  contengono, inoltre, grassi monoinsaturi in grado di abbassare il livello del colesterolo LDL e dei trigliceridi.
Sono una fonte di fitosteroli,  sostanza ritenuta importante per la prevenzione delle malattie cardiovascolari e contengono, inoltre,  grassi monoinsaturi in grado di abbassare il livello del colesterolo LDL e dei trigliceridi.
La nocciola Tonda Gentile del Piemonte ovvero Nocciola Piemonte è una varietà di nocciola a indicazione geografica protetta, prodotta nella parte sud del Piemonte che comprende alcune aree delle province di Cuneo, di Asti e di Alessandria.
Fra le caratteristiche che rendono particolarmente pregiata questa varietà vanno citate in particolare:  la forma tonda del frutto che favorisce una veloce sgusciatura meccanica, mantenendo intatto il seme, il guscio sottile che da una resa del prodotto sgusciato elevata, dal 46 al 50%,il seme dotato di buon aroma e di sapore delicato.
Il tenore dei grassi è limitato ed ha quindi buona conservabilità senza problemi di irrancidimento, a sottile pellicola che avvolge il seme (perisperma) viene facilmente asportato dopo la tostatura.
La torta di nocciole è dolce tipico piemontese che viene solitamente consumata così o con  l’aggiunta di zucchero a velo e accompagnata con zabaione.


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Ingredienti  per una tortiera di 18/20 cm di diametro

240 gr di nocciole tostate Tonda Gentile del Piemonte  o di farina di nocciole 
50 gr di amido di mais
60 gr di burro
2 uova
90 g di zucchero
1 bustina di lievito per dolci
Un pizzico di sale
Granella di nocciole


Procedimento

Tritate grossolanamente una decina di  nocciole nel mixer ( vi serviranno per la guarnizione) , tenete intere un’altra decina e tritate a farina, con lo zucchero, le rimanenti.
Mettete la farina ottenuta in una ciotola, unite l’amido, e mischiate bene. Aggiungete le uova leggermente sbattute  e il burro fuso raffreddato. Amalgamate molto bene con una frusta e aggiungete il lievito.

sabato 15 aprile 2017

Fritto misto alla piemontese - fritura mës-cia

E’ una delle ricette più famose dell’albese, la sua caratteristica è quella di essere non solo particolarmente assortito e abbondante, ma di riunire sia il fritto salato sia quello dolce. Va consumato caldissimo e ben asciugato. Anche questa ricetta ha molte versioni casalinghe che aggiungono altri ingredienti come costolette d'agnello, funghi, cavolfiori ecc.



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Ingredienti per 4 persone:

4 bistecchine di vitello
4 fettine di fegato,
2 etti di schienali di vitello
4 polpettine di carne macinata
1 cervella
4 pezzi di salsiccia
4 amaretti
4 prugne secche senza nocciolo
50 gr di Parmigiano Reggiano grattugiato
4 uova
Pangrattato q.b.
100 gr di farina
1 bicchiere d’olio extravergine d’oliva

Per i semolini dolci 


125 gr di semola
50 gr di zucchero
½ lt.  di latte
1 uovo
30 gr di burro
La scorza di un limone non trattato

Procedimento

Innanzitutto preparate il semolino per la frittura dolce.
Portate ad ebollizione il latte con lo zucchero e la scorza del limone grattugiata, unite il semolino a pioggia amalgamando con la frusta per evitare grumi e fate cuocere per 5 minuti o finché diventa sodo. Togliete dal fuoco, lasciate appena intiepidire poi unite il burro, un uovo e amalgamate tutto. Versate il semolino su di un piano da lavoro, livellatelo a 2 cm di spessore e lasciatelo raffreddare completamente, poi tagliatelo a losanghe.

lunedì 10 aprile 2017

Agnolotti di magro-Agnolòt 'd màgher

Si narra che gli agnolotti furono inventati da un cuoco francese che si trovava a Torino durante un assedio. Egli fece di necessità virtù e con gli avanzi della dispensa creò questi piccoli scrigni di bontà. In realtà crediamo che questa versione sia molto discutibile, che siano nati dagli avanzi di cibo non abbiamo dubbi, in quei tempi non si sprecava nulla, ma riteniamo che forse erano già esistenti in Piemonte poiché sono presenti da troppo tempo e in molte versioni specialmente nelle Langhe. Qui , ancora oggi sono consumati come pasto domenicale, nelle grandi occasioni o nelle festività.
Molteplici sono le versioni dei ripieni, e ci raccontano la storia di questo territorio. La carne di vitello o di maiale era costosa e nacque quindi, nell’Alta Langa, la più povera, la deliziosa versione con la carne di coniglio,( allevato in cascina, arrostito, disossato e tritato). Anche le forme variano da quadrati a leggermente rettangolari (pessià) o pizzicati come gli agnolotti del plin (pizzico).
Questa è la versione “povera” con la ricotta (seirass) e gli spinaci tipica della provincia di Verbania Cusio Ossola che veniva condita anche solo con burro e salvia,




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Ingredienti per 4 persone

Per la pasta all'uovo:
 400 gr. di farina
 4 uova
Sale q.b.

Per il ripieno
200 g di seirass (ricotta piemontese)
400 g di spinaci
1 uovo
2 cucchiai di pangrattato
4 cucchiai di olio extravergine d’oliva
3 cucchiai di Parmigiano Reggiano grattugiato
1 pizzico di noce moscata
1 spicchio d’aglio

Per il sugo
1 barattolo di pelati
1 carota piccola
1 cipolla bianca piccola
2 gambi di sedano
Timo, maggiorana
Olio extravergine d’oliva q.b.
Sale e pepe q.b.

Procedimento
Mettete la farina sulla spianatoia  a formare una fontana, inserite al centro le uova, un pizzico di sale  e impastate fino ad ottenere un composto morbido ed elastico. Avvolgete nella pellicola e lasciate riposare per un’ora.

Lingua al verde -Lenga al verd

La lingua di vitello o di manzo è una gustosa frattaglia indispensabile nel bollito misto alla piemontese. Da consumare bollita, sia calda come secondo, accompagnata da salse tipo il bagnet russ,  la senape, ecc. oppure, come in questo caso, sia fredda come antipasto, ricoperta da una bella salsa verde.
Come tutte le frattaglie è ricca di vitamine: B1,B2, PP, B12, A  e di sali minerali come ferro, zinco e rame.




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Ingredienti:

1 lingua di manzo o di vitello
1 carota
1 cipolla
1 gambo di sedano
3 foglie di alloro
2 lt di acqua calda
2 etti di prezzemolo
una ventina  di capperi sott'aceto
1 spicchio d'aglio
 5 filetti di acciughe
1/2 bicchiere di olio extravergine d'oliva q.b.
1 cucchiaio raso di aceto bianco
Sale q.b.

Procedimento

In una capiente pentola mettete l' acqua e ponetela sul fuoco.
Quando l’acqua sta per bollire, aggiungete la lingua ben  e schiumatela con una schiumarola. Aggiungete il gambo di sedano, la carota, la cipolla,  le  foglie di alloro e il sale. Lasciate cuocere per 2 ore circa. Lasciate raffreddare la lingua nel suo brodo.
Nel frattempo preparate il bagnet.

giovedì 6 aprile 2017

Cipolle bianche ripiene di Testun- Siole pien ed Testun

Testun in dialetto piemontese: testone,  in italiano, cioè testa grossa e dura. Tale il nome, tale la consistenza di questo formaggio prodotto con il latte di pecora che deve stagionare almeno 4 mesi.
Si produce nel territorio del Monregalese, in provincia di Cuneo, e in Valle Erro, in provincia di Alessandria.
La tecnica casearia del Testun si tramanda da casaro in casaro, ma ormai lo si trova poco, perché gli ovini sono sempre meno nel sud del Piemonte.
Il Testun è un P.A.T. (Prodotto agroalimentare tradizionale)




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Ingredienti per 4 persone:
4 cipolle bianche
2 uova
200 gr di Testun d’Alpeggio
100 gr di pangrattato
100 gr di gherigli di noce
50 gr di burro
Sale e pepe q.b.

Procedimento

Sbollentate per 5 minuti le cipolle in acqua bollente salata, scolatele, lasciatele raffreddare completamente e togliete la buccia.
Quando saranno fredde, tagliate la punta ma non gettatela  togliete il cuore con uno scavino e tritatelo con le noci e il Testun.
Unite il pangrattato, lasciandone da parte un cucchiaio, il sale, il pepe e le uova. Amalgamate tutto e riempite le cipolle. Mettetele in una pirofila imburrata, spolverizzate con il pangrattato rimasto, aggiungete dei fiocchetti di burro e infornate a forno preriscaldato a 180°C per 20 minuti, estraete dal forno e ricopritele con le punte tenute da parte, re infornate e continuate la cottura ancora per 10 minuti.



mercoledì 5 aprile 2017

Cugnà - Mostarda piemontese

Narra la leggenda che questa salsa nacque dalla necessità di conservare la frutta in una zona dove gli inverni sono molto rigidi, il nome stesso ci spiega del perché ne esitano tante versioni: Cugnà pare che sia il contratto di “Quel c’un ha” ossia quello che ognuno ha, quel che c’è.
Per ore, pesche di vigna, mele, prugne, pere, frutta secca immerse nel mosto di Barbera o di Dolcetto o uve miste, cuocevano nel paiolo, sospeso sulle braci del camino e le nostre nonne mescolavano in continuazione fino ad addensamento completo e senza zucchero, merce rara e preziosa per i contadini di allora.
A metà strada tra una salsa ed una marmellata, si tratta essenzialmente di una mostarda a base di uva e altri ingredienti che possono comprendere mele renette/golden, nocciole, pere madernassa, mele cotogne, fichi secchi (anche freschi), albicocche secche, chiodi di garofano, cannella, frutta secca (mandorle, noci) . E’ una di quelle ricette che ogni famiglia preparava a suo modo, per cui è difficile decretare un’unica ricetta, questa è quella della nostra famiglia.
La cugnà va consumata fredda  in accompagnamento al bollito misto alla piemontese, ai formaggi (specialmente la robiola),alla polenta,  ecc., oppure spalmata sul pane.
La preparazione lunga e laboriosa potrebbe scoraggiare, ma sappiate che l’impegno è ampiamente ricompensato da un gusto impagabile.




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Ingredienti:

 2,50 kg di uva Dolcetto
250 gr di mele cotogne
250 gr di mele renette
250 gr di fichi freschi
1 kg di  pere Martin Sec
250 gr  tra noci e nocciole tostate e tritate
Una buccia d’arancia non trattata
Una buccia di limone non trattato
5 chiodi di garofano
50 gr. di zucchero.
Un pezzettino piccolo di cannella sbriciolata


Procedimento

Lavate l’uva, asciugatela e schiacciatela per ottenere il succo. Filtrate per eliminare le bucce e i vinaccioli.
Versate il succo in una pentola e portatelo a bollore, fatelo sobbollire a fuoco dolce fino a ridurlo alla metà, schiumandolo di tanto in tanto, ci vorrà circa un’ora.
Trascorso il tempo aggiungete tutta la frutta tagliata a pezzi e  le bucce dell’arancia  e del limone anch’esse a pezzi e lo zucchero.

Coniglio con i funghi porcini- Cunij con ÿ bolé

Il coniglio e il pollame in generale sono stati da sempre, per i contadini piemontesi, un ottimo sostituto della carne di manzo molto più costosa. Molteplici sono le ricette che li utilizzano come ingredienti principali. Questa che vi proponiamo oggi è originaria della provincia di Verbania Cusio e Ossola.
I funghi vanno consumati entro breve tempo dalla loro raccolta (massimo due giorni di conservazione in frigorifero, nello scomparto della frutta e verdura, dopo averli ripuliti e spazzolati per eliminare residui terrosi), il gambo deve essere sodo e compatto, il cappello integro e senza muffe, l'odore gradevole.
Tenete presente che funghi commestibili, se mal conservati, possono essere pericolosi per la saluti come quelli velenosi. 





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Ingredienti per 4 persone.

1 coniglio di circa 1 kg.
1 cipolla  tagliata a cubetti
rosmarino, salvia, alloro tritati
Qualche rametto di prezzemolo
1 spicchio d'aglio
1 bicchiere di  Arneis  o altro vino bianco 
2 bicchieri di brodo o di acqua calda
300 g di funghi porcini
Sale q.b.
Olio extravergine d’oliva q.b.


Procedimento

In una casseruola versate 4 cucchiai d’olio, scaldate leggermente e unite il coniglio tagliato a pezzi. Lasciate rosolare a fuoco vivo per qualche minuto facendo rosolare  la carne da tutti i lati. Salate e unite la cipolla tagliata e lo spicchio d’aglio. Lasciate dorare lentamente, poi sfumate con il vino e fatelo evaporare, parzialmente, a fuoco alto, spolverizzate gli aromi e aggiungete il brodo caldo.